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Trento, 3 luglio 2015
VITA GLOBALE E CONVIVENZA INTER-ETNICA
di Marco Boato
dal Trentino di venerdì 3 luglio 2015

Il processo di globalizzazione è ormai irreversibile, anche se è molto più libera la circolazione dei capitali (e anche delle idee) che non quella delle persone, che trovano enormi difficoltà, specialmente per chi proviene, al di fuori dell’Unione europea, da Stati in guerra (interna o inter-statuale) o da situazioni di fame e sottosviluppo.

L’Italia, per come si è formata nel corso dei secoli e anche dei millenni, è il frutto di una commistione di popoli ed etnie molto diversi, è il frutto anche di quelle che vennero chiamate “invasioni barbariche”. Ma che in altre lingue vengono più correttamente definite “migrazioni di popoli” (ad esempio in tedesco Völkerwanderungen).

Alcuni dei santi che, sul piano religioso, vengono venerati in Italia sono in realtà di altra origine. L’identità “nazionale” (termine ormai inadeguato) italiana è il frutto di un secolare processo di commistione di etnie diverse (preferisco non usare il termine “razze”, discutibile sul piano scientifico, anche se compare purtroppo nell’art. 3 della Costituzione italiana).

D’altra parte, decine di milioni di italiani, in un secolo e mezzo, dopo l’unità d’Italia, ben prima degli attuali processi di globalizzazione, sono a loro volta “emigrati” in altri Stati. Solo di recente il segretario del Pd e attuale Presidente del consiglio, Matteo Renzi, ha utilizzato l’espressione “partito della nazione”, suscitando molte perplessità critiche, anche se ha fatto riferimento ad Alfredo Reichlin, storico dirigente del Pci - Pds - Ds (ora Pd), che a sua volta si era richiamato alla tradizione “togliattiana” del Pci del dopoguerra, quando i comunisti dovevano “legittimarsi” come partito “nazionale” per respingere le accuse di essere subalterni al comunismo sovietico.

Il concetto di “italiano” esprime nel nuovo contesto un significato progressivamente diverso, nel senso di assumere sempre più al suo interno quello di una pluralità di provenienze etniche, culturali e religiose, rappresentate da quei “nuovi cittadini” che ne entrano sempre più a far parte, assumendo gradualmente anche la stessa cittadinanza italiana. Il politico e scrittore ottocentesco Massimo D’Azeglio dopo l’unità d’Italia, disse: «L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani». E quel processo durò oltre un secolo, passando attraverso due guerre mondiali e un processo di alfabetizzazione che si è per larga parte compiuto solo negli anni ’60 del Novecento.

Ora siamo di fronte a un processo analogo, che riguarda non più (solo) gli italiani originari, ma quei “nuovi italiani” che gradualmente si inseriscono - con le loro etnie, culture, storie e religioni - nel tessuto civile e sociale del Paese.

Personalmente condivido il concetto di “patriottismo costituzionale” elaborato da Jürgen Habermas, che permette di superare ogni forma di nazionalismo, da cui Germania e Italia sono state affette durante i regimi nazista e fascista, e che fa riferimento alle nuove Costituzioni democratiche adottate dai due Stati dopo la seconda guerra mondiale. Che le nazioni tendano ad assomigliarsi sotto il profilo dello Stato costituzionale di diritto, dell’accettazione dei principi della democrazia politica e della condivisione dei diritti umani, non è assolutamente un fatto negativo, tutt’altro. Questo non significa affatto perdere le proprie peculiarità, che sono insite nella storia e nella cultura di ciascuno Stato, ma comporta anche che l’identità nazionale sia concepita in modo aperto e plurale, senza rigidità e senza esclusivismi.

Il problema fondamentale a cui tutti gli Stati occidentali, ed europei in particolare, devono far fronte è quello, da una parte, di non chiudersi al proprio interno come “fortezze assediate” e, dall’altra parte, di non lasciar creare “ghetti etnici”, comunità separate per gruppi etno-linguistici nell’ambito delle società contemporanee. Questo è un problema che esiste tanto in Francia, Germania e Gran Bretagna, quanto in Italia. Rispettare le diversità altrui e identità altrui non deve significare una giustapposizione di gruppi separati, né una sorta di assoluto relativismo culturale ed etico. In questo senso “interculturalità” può e deve significare capacità di mettere in relazione le varie culture ed etnie, farle interagire tra di loro, suscitare un dialogo reciproco e una capacità reciproca di confrontarsi e “integrarsi”, senza che questo “integrarsi” implichi una sorta di assimilazione forzata.

Questo comporta sicuramente la necessità di rifiutare ogni forma rigida ed onnipervadente di identità nazionale basata su un esclusivismo “etno-culturale”, che oltre a tutto non fa i conti con la storia reale di formazione del popolo italiano e con la complessità e pluralità delle sue origini.

Sicuramente, almeno per quanto riguarda l’ambito europeo, sarebbe fondamentale superare le rigide identità nazionali nel quadro della futura formazione degli “Stati Uniti d’Europa” in chiave federale, nell’ambito dei quali tutte le identità etno-culturali sarebbero destinate ad essere reciprocamente “minoranze” ed indotte a relazionarsi in modo aperto e nel rispetto reciproco, sulla base della condivisione dei medesimi principi democratici e degli stessi valori etici di fondo.

L’Italia sta vivendo negli ultimi anni qualcosa di analogo a quello che altri Stati europei hanno già vissuto da vari decenni e che è stato un fenomeno pervasivo negli Stati Uniti d’America. Proprio perché arriva “dopo”, l’Italia dovrebbe potersi avvantaggiare delle esperienze di altri Paesi e anche saper evitare errori da altri compiuti: da una parte la pretesa di “omogeneizzare” rigidamente i nuovi cittadini ad un paradigma unico ed esclusivo; dall’altra parte, l’illusione che la convivenza inter-etnica possa realizzarsi attraverso la separatezza e l’isolamento delle diverse etnie.

L’Italia ha, all’interno dei propri confini, l’esperienza politica, culturale, sociale e istituzionale dell’Alto Adige/Südtirol, una provincia-regione nell’ambito della quale è maggioranza quella minoranza sudtirolese di lingua tedesca che in passato ha dato vita anche a fenomeni di totale separatezza e persino di terrorismo. La teoria e la pratica della “convivenza inter-etnica”, in passato sostenuta soltanto da Alexander Langer e pochi altri, oggi è diventata il punto di riferimento della grande maggioranza della popolazione di lingua tedesca, italiana o ladina, e ormai anche di cittadini provenienti da molte altre etnie.

I “nuovi italiani” possono costituire una grande ricchezza culturale e sociale per l’Italia, a condizione che vengano loro riconosciuti gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini e che si aprano loro spazi di interazione ed “integrazione”, senza la formazione di “ghetti etnici” e senza la pretesa di forzata “assimilazione”. La “convivenza” è qualcosa di più e di meglio della “coesistenza” e permette un arricchimento culturale e sociale reciproco, da cui la società italiana può e potrà trarre grande vantaggio.

Marco Boato

 

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